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Cos’è l’effetto fotoelettrico e perché è così importante

5' di lettura
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L’interpretazione dell’effetto fotoelettrico rappresenta una tappa di fondamentale importanza nella storia della comprensione della luce in fisica, un lungo percorso che affonda le sue radici fin dai tempi di Euclide. In questo articolo, scopriamo insieme che cos’è, come funziona e perché ha portato Einstein a vincere il Premio Nobel per la Fisica nel 1921.

La scoperta dell’effetto fotoelettrico: da Hertz ad Einstein

Gli esperimenti condotti da Heinrich Hertz a fine ‘800 avevano confermato l’esistenza delle onde elettromagnetiche di cui Maxwell, anni prima, aveva previsto l’esistenza. La teoria dell’elettromagnetismo sembrava dunque essere valida e la maggior parte dei fenomeni allora conosciuti potevano essere spiegati attraverso essa o attraverso la meccanica newtoniana, l’altra importante teoria fisica che a quei tempi nessuno osava mettere in discussione.

C’erano, tuttavia, dei fenomeni che non riuscivano ad essere in alcun modo spiegati attraverso la fisica classica. Uno dei primi ad accorgersene fu proprio Hertz che, nel 1887, si rese conto che il fenomeno di scarica elettrica che si genera tra due elettrodi è accelerato se i conduttori vengono illuminati con della radiazione ultravioletta.

Ben presto, anche altri scienziati si interrogarono sulla questione e il fisico italiano Augusto Righi, nel tentativo di comprendere il fenomeno, a cui diede il nome di effetto fotoelettrico, scoprì che una lastra metallica conduttrice illuminata da una radiazione ultravioletta si carica positivamente.

Philipp Lenard, nei primi anni del ‘900, eseguì uno studio sistematico dell’effetto fotoelettrico, scoprendo che quando una luce colpiva una superficie metallica, questa emetteva elettroni. Tuttavia, la spiegazione del fenomeno, in alcun modo riconducile alla fisica classica, arrivò soltanto grazie ad Albert Einstein. Fu lui ad intuire, nel 1905, che la radiazione elettromagnetica è composta da pacchetti di energia, chiamati fotoni. Questi, se abbastanza energetici, possono liberare elettroni dalla superficie illuminata, generando una corrente elettrica.

L’ipotesi rivoluzionaria di Einstein, grazie alla quale la luce avrebbe avuto una doppia natura, corpuscolare e ondulatoria, non fu subito accettata dalla comunità scientifica dell’epoca: lo scienziato dovette attendere anni prima che la sua spiegazione fosse verificata da ulteriori osservazioni sperimentali. Ma perché la sua interpretazione fu così rivoluzionaria per la fisica? Per comprenderlo, analizziamo le osservazioni sperimentali di Lenard.

Le osservazioni di Lenard: i risultati inspiegabili con la fisica classica

Philipp Lenard condusse una serie di esperimenti per studiare in dettaglio l’effetto fotoelettrico, ossia quel fenomeno fisico che consiste nell’emissione, da parte di una superficie metallica, di elettroni quando questa viene investita da radiazione elettromagnetica avente una determinata energia.

Per farlo, egli si servì di una cella fotoelettrica, uno strumento costituito da una superficie metallica all’interno di un circuito, che permette di misurare la corrente generata dall’emissione di elettroni quando il metallo viene illuminato da radiazione elettromagnetica.

C’erano, tuttavia, tre aspetti fondamentali che la fisica classica non riusciva a spiegare:

  • Energia indipendente dall’intensità della luce: l’aumento dell’intensità della luce aumentava il numero di elettroni emessi, ma non la loro energia cinetica;
  • Esistenza di una frequenza di soglia: era presente una frequenza di soglia sotto la quale, per qualunque intensità della luce, il fenomeno non avveniva;
  • Assenza di ritardo: l’emissione degli elettroni era sempre istantanea, senza il tempo di accumulo previsto dalla teoria classica.

Come funziona l’effetto fotoelettrico: l’interpretazione di Einstein

Nel 1905, Albert Einstein propose un’interpretazione del fenomeno: egli ipotizzò che la luce fosse composta da quanti di energia, chiamati fotoni. Secondo il celebre fisico, che nel 1921 ottenne il Premio Nobel per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico, ogni fotone trasferisce la sua energia ad un singolo elettrone del metallo.

Se questa energia superava la funzione lavoro del materiale (ovvero l’energia necessaria per l’estrazione di un elettrone), l’elettrone veniva emesso.

Tale spiegazione riusciva ad interpretare perfettamente i risultati sperimentali di Lenard:

  • L’energia degli elettroni dipendeva dalla frequenza della luce e non dalla sua intensità;
  • Esisteva una frequenza di soglia, al di sotto della quale l’energia dei fotoni era insufficiente per estrarre elettroni;
  • L’assenza di ritardo era dovuta al fatto che l’energia veniva trasferita istantaneamente dal fotone all’elettrone.

Applicazioni dell’effetto fotoelettrico nella tecnologia moderna

L’effetto fotoelettrico, oltre ad aver rappresentato una svolta nella comprensione della natura della luce, viene utilizzato in molte applicazioni della vita quotidiana.

Uno dei più noti utilizzi è quello dei pannelli fotovoltaici, che sfruttano l’emissione di elettroni dalla superficie di un materiale semiconduttore per convertire la luce solare in elettricità.

Sapevate che…

  • Quanti Premi Nobel ha ricevuto Albert Einstein?

    Ad Albert Einstein fu assegnato un solo Premio Nobel, nel 1921, “per i suoi contributi alla fisica teorica, in particolare per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico”. Curiosamente, la teoria per cui è più noto, la Relatività, non gli valse alcun Nobel, probabilmente perché all’epoca era ancora oggetto di un aspro dibattito.

  • Cosa pensava Einstein sulla meccanica quantistica?

    Nonostante la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico abbia dato un enorme contributo alla nascita e allo sviluppo della meccanica quantistica, Albert Einstein ebbe molti dubbi sull’interpretazione probabilistica della teoria. Il suo scetticismo può essere riassunto dalla celebre frase “Dio non gioca a dadi”.

 

a cura di Giada Cacciapaglia

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