Esopianeti: cosa sono davvero e come vengono scoperti
Siamo soli nell’Universo?
Quante volte, catturati dal fascino di un cielo stellato, ci siamo chiesti se là fuori, nell’immensità del nostro Universo, ci siano altre forme di vita? Una domanda senza tempo che ha accumunato decine di generazioni e che forse, dinanzi al progresso scientifico, tendiamo a porci ancora più spesso. Le primissime idee riguardo l’esistenza di infiniti mondi potenzialmente abitabili da altre creature risalgono all’Antica Grecia e al pensiero di filosofi come Democrito ed Epicuro. Tuttavia, il primo ad ipotizzare che l’Universo fosse molto più vasto di quanto si potesse credere fu Giordano Bruno che, già nel 1584, nel suo “De l’Infinito, Universo e Mondi” affermava che all’interno dell’Universo vi è un numero infinito di pianeti che ruotano attorno alla propria stella, proprio come la Terra è in grado di ruotare attorno al Sole.
Non solo, il frate domenicano ipotizzò che non riusciamo ad osservare questi pianeti perché le loro stelle sono più grandi e più luminose e perciò tendono ad oscurare la loro visione. Concettualmente, si tratta di presupposti per la comprensione della cosmologia moderna anche se, in quell’epoca, apparivano come idee rivoluzionarie e alquanto pericolose. Giordano Bruno, infatti, fu giudicato come eretico dall’Inquisizione cattolica e, infine, giustiziato al rogo. Le sue ipotesi dovettero attendere qualche secolo prima di essere definitivamente confermate, anche grazie allo sviluppo di nuove tecnologie in grado di rilevare i potenziali mondi abitabili.
Una ricerca appena iniziata
Soltanto al 6 ottobre 1995 risale la scoperta del primo pianeta extrasolare in orbita attorno ad una stella simile al nostro Sole, 51 Pegasi b (51 Peg b), ad una distanza di circa 48 anni luce dalla Terra in direzione della costellazione di Pegaso. Nello specifico, gli astronomi svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz, a cui è stato attribuito il Premio Nobel per la Fisica nel 2019, rilevarono un corpo di massa molto simile a quella di Giove, in un’orbita più piccola di quella che Mercurio compie attorno alla nostra stella. La loro scoperta ha aperto la strada ad una vera e propria “caccia” agli esopianeti, confermando quelle che prima erano soltanto ipotesi. In meno di 30 anni, sono stati scoperti oltre 5000 pianeti extrasolari e centinaia di pianeti sono ancora in attesa di conferma.
Come vengono scoperti gli esopianeti?
Nel tempo sono state perfezionate diverse tecniche che consentono di individuare nuovi esopianeti: metodi diretti, grazie ai quali osserviamo direttamente (utilizzando un telescopio) la presenza di un pianeta, e metodi indiretti che permettono di rilevare la presenza di un pianeta analizzando gli effetti che la sua presenza provoca nello spazio circostante. I metodi diretti sono poco utilizzati perché la forte luce emessa dalla stella impedisce, quasi sempre, di osservare la luce proveniente dal pianeta. Tra i metodi indiretti, invece, vengono spesso utilizzati il metodo delle velocità radiali e il metodo dei transiti.
Nel primo, conosciuto anche come doppler redshift, si studiano le oscillazioni della luce emessa della stella causate dalla presenza gravitazionale di un pianeta che orbita attorno ad essa. Questa tecnica risulta particolarmente vantaggiosa perché consente di ricavare diversi parametri fisici del pianeta, come la velocità orbitale o la sua massa.
Nel secondo, invece, si studiano i cali di luminosità di una stella potenzialmente causati dal passaggio di uno o più pianeti lungo la linea di vista. La variazione di luminosità dipende dalle dimensioni della stella e del pianeta, oltre che dalle dimensioni dell’orbita. Pertanto, un’osservazione di questo tipo permette di ricavare molte informazioni, tra cui il raggio del pianeta o le caratteristiche dell’orbita.
Possono ospitare la vita?
Parlando di esopianeti, la domanda sorge spontanea: è possibile che almeno uno di questi sia in grado di ospitare la vita? Un quesito al quale gli scienziati stanno tentando di trovare da anni una risposta. Uno dei fattori più importanti per compiere questo tipo di indagine è comprendere se il pianeta si trova nella cosiddetta zona abitabile: si tratta di una zona orbitale ben precisa che presenta le condizioni adatte affinché sulla superficie del pianeta possa esserci acqua in forma liquida. La ricerca, però, è molto più complicata di quanto si possa pensare in quanto la presenza di acqua è solo uno degli innumerevoli elementi che contribuiscono alla presenza di forme di vita.
Tra i vari elementi da considerare c’è, ad esempio, la luce ultravioletta della stella attorno alla quale orbitano i pianeti: questa radiazione potrebbe da un lato favorire la formazione di zuccheri primari che contribuiscono allo sviluppo della vita, dall’altro risultare dannosa distruggendo le catene del DNA delle prime cellule che si formano. Occorre, pertanto, trovare, tra i vari candidati, un pianeta contenuto nella zona abitabile, ma anche tale per cui la radiazione non risulti né troppo intensa né troppo debole. Solitamente, per avere una stima delle potenzialità di un pianeta, si utilizza l’Indice di similarità terrestre (noto con la sigla “ESI”) che misura quanto un pianeta sia fisicamente simile alla Terra: nello specifico, affinché un corpo celeste abbia buone possibilità di essere abitato, è necessario un indice pari o superiore a 0,80.
Riusciremo mai a raggiungerli?
È facile lasciarsi trasportare dalla fantasia e immaginare di compiere viaggi interstellari alla scoperta di pianeti abitabili come nel film “Interstellar”, ma saremo mai in grado di raggiungere questi mondi lontani o rimarrà per sempre pura fantascienza? Occorre ricordare che, con la tecnologia attualmente impiegata nelle missioni spaziali, non è possibile compiere viaggi interstellari in tempi ragionevoli.
La sonda Parker Solar Probe, il mezzo più veloce che l’uomo è finora stato in grado di costruire, è arrivata ad una velocità massima di 690.000 chilometri all’ora. Una velocità elevatissima, se pensiamo che andando così veloci riusciremmo a circumnavigare il pianeta Terra in soli 4 minuti, ma allo stesso tempo bassissima se confrontata con la velocità della luce ossia circa 300.000 chilometri al secondo. Proxima Centauri b, l’esopianeta più vicino alla Terra, con un ESI pari a 0,87, è uno dei pianeti più promettenti in termini di abitabilità ma per raggiungerlo dovremmo percorrere ben 4,22 anni luce, ovvero all’incirca 40.000 miliardi di chilometri. Una distanza enorme che riusciremmo a percorrere in soli 4 anni viaggiando alla velocità della luce, cosa che purtroppo è ancora ben oltre le possibilità. Con le attuali tecnologie, una missione di questo tipo impiegherebbe migliaia di anni prima di riuscire a raggiungere Proxima b, ovviamente un tempo troppo lungo per l’aspettativa di vita umana.
La scienza e la tecnologia, però, sono in continua evoluzione e, guardando indietro nel tempo, l’esplorazione spaziale in meno di un secolo ci ha portati in luoghi che mai avremmo potuto pensare di raggiungere. È più che lecito, dunque, pensare che in un futuro lontano le nostre sonde potrebbero riuscire a raggiungere questi mondi tanto lontani quanto affascinanti.
a cura di Giada Cacciapaglia